Impastare, per incordare un impasto per pane, è proprio necessario?

Non lasciamoci fuorviare dai giudizi o dai pregiudizi. Proseguiamo con equilibrio per la nostra strada e tutto ciò che realizzeremo con le nostre mani, sarà comunque da considerarsi una forma d’arte.
(P.N.)

Pane foglie d'inverno

E’ molto tempo ormai che quando impasto, evito l’impiego dell’impastatrice ed è anche molto tempo che sostengo che la farina, una volta che ha assorbito l’acqua “fa tutto da sé”. Qualcuno, naturalmente non è d’accordo e questo è routine.

Me ne accorsi qualche anno fa, quando per un contrattempo, lasciai un impasto grezzo sul tavolo per circa un’ora e quando tornai ad occuparmene, con mia grande sorpresa e manipolandolo un pochino, lo trovai perfettamente incordato.

Premetto che poco tempo prima, nel 2016, realizzai per la prima volta il pane senza impasto e successivamente, cominciai a ragionare e parallelamente a ricercare articoli che potessero spiegarmi il fenomeno, visto che tutti asserivano che un impasto deve essere lavorato e incordato.

La ricerca in rete, non semplicissima, può essere paragonata al consumo delle ciliegie; dopo la prima, non ti accontenti mai e ne desideri altre. Tuttavia, avete presente cosa può significare avere davanti un puzzle composto da migliaia di frammenti da incastrare l’uno con l’altro? Ecco, non saprei spiegare meglio, quanto sia difficile ricomporre il “quadro”. La vastità dell’argomento teorico-pratico è spesso condizione di incertezza e contrasto per molti di noi.

Alle volte ho come da la sensazione di navigare controcorrente e con fatica. Pormi domande e ricercare risposte è un’attività che ho sempre svolto con passione in ogni ambito e, nel caso della panificazione, uno dei quesiti più importanti che mi posi a suo tempo, fu il chiedermi come mai, quando impasto con la planetaria, ottengo un risultato visibilmente simile e non necessariamente migliore, rispetto invece a quando impasto a mano. Da quel giorno, il mio approccio con la panificazione cambiò radicalmente.

Con pazienza, come succede anche quando cerchi un decreto legislativo che rimanda a “successive modifiche”, la mia scrivania virtuale si riempie continuamente di “scartoffie” digitali che cerco di riordinare all’interno dei miei raccoglitori virtuali ormai catalogati ed etichettati. “Chimica”; “fisica”; “storia”; “biologia” ecc. sono frutto di un’attività di ricerca costante, utile a dissipare le mie perplessità.

Lo so, probabilmente qualcuno starà pensando che sono follemente ossessionata dalla materia poiché sarebbe sufficiente sfogliare un qualunque sito web e realizzare un prodotto come fa la maggior parte delle persone. A me però, questa attività non soddisfa e non ho mai amato replicare qualcosa senza comprenderla. Io amo capire e soprattutto, creare, qualcosa dal nulla.

Quando studiavo pianoforte, oltre all’eseguire brani che i miei docenti mi assegnavano, amavo creare melodie e testi di mia proprietà. Dopo il diploma, decisi di intraprendere un percorso di specializzazione e studio della composizione che ho interrotto poco dopo per proseguire nell’insegnamento, che mi prendeva molto tempo e non mi lasciava ampio spazio per lo studio.

Mia madre mi ripeteva sempre una classica frase : “impara l’arte e mettila da parte” ed è quel che ho cercato di fare, trasmettendo questa filosofia mentale anche alle mie figlie e poiché le strade della vita sono infinite, non si sa mai dove possono condurre. Un cassetto pieno di cultura è sempre meglio di un cassetto inesorabilmente vuoto. Oltre a riempirti la vita, ti fa gioire del bello che essa può offrire.

Tornando agli impasti, scusandomi per questo intermezzo fuori tema, dopo una breve miscelazione manuale che mi consente di lasciare la bastardina pulita, faccio susseguire un riposo non troppo breve ma variabile in base allo sfarinato impiegato. Successivamente, quando torno a manipolare l’impasto, questo si presenta perfettamente liscio e “in corda”, pur non avendolo sottoposto ad alcuno “sforzo” meccanico. Il risultato finale, a parità di impasto miscelato con impastatrice meccanica, mi restituisce un risultato che non differisce da un impasto miscelato con planetaria e anzi, devo dire che mi soddisfa molto di più, proprio dal punto di vista estetico.

Impasto di pane con semola rimacinata di Altamura

L’esperienza umana sulla panificazione è plurisecolare e in questo settore le “campane” sono infinite. Non si smette mai né di scoprire né di apprendere tecniche  apparentemente nuove e definite “moderne” la cui origine è invece molto antica poiché, al di là dei naturali progressi evolutivi, tutto quanto quello che oggi conosciamo della panificazione, appartiene al passato remoto, molto remoto. Chiaramente, il nostro presente, nel momento in cui se ne viene a conoscenza,  fa apparire il tutto come una novità mentre qualunque tecnica o metodo trova risposte convincenti, nei fondamenti e nelle origini della panificazione nonché nella logica di base che, nel tempo si è evoluta.

Numerosi studi, ad esempio, a partire dagli anni ’60 e ’70, descrivono le condizioni operative che riguardano la miscelazione di un impasto in quell’epoca. Le conoscenze basilari odierne, pur essendo ormai parte integrante di uno scenario globale che “connette” le proprietà reologiche della farina con gli altri ingredienti, non esprimono mai alcuna “tecnologia accertata” e definitiva. Gli studiosi e i ricercatori che non hanno la verità in tasca, si limitano, umilmente, a riportare quanto hanno compreso fino a quel momento usando sempre il condizionale, mai l’assoluto. Probabilmente, il motivo di questa modalità di espressione, risiede nella consapevolezza che nulla è mai assolutamente certo.

Ogni panificatore, prima o poi, si porrà delle domande e cercherà delle risposte. La tecnologia che lega panificazione alle tradizioni culturali, differisce ampiamente da paese a paese così come anche i test di qualità (MacRitchie, 1984; Mesdag, 1985). Non a caso i numerosi studi pubblicati, prevedono incroci e risultati che sono oggetto di test che mostrano un’attendibilità del tutto relativa.

Il pane è una splendida conseguenza dell’operato di un individuo, di un artigiano che impara a conoscere le diversificate metodologie di processo e tutto quanto vi ruota intorno.

Formulare criteri universalmente applicabili è molto complicato e un impasto racchiude in sé parametri e variabili che sfociano in requisiti tecnici che contemplano l’energia meccanica di miscelazione, l’assorbimento di acqua da parte dello sfarinato, la viscosità, l’estensibilità, la tenacità, l’equilibrio proteico, enzimatico, biochimico, atmosferico ecc. Il tutto, si traduce nella valutazione dell’aspetto finale che distingue un buon pane dal colore, dal volume, dalla mollica, dalla palabilità, dalla tempistica di conservazione e non ultima, la digeribilità.

Un equilibrio chimico-fisico  prevede dunque l’interazione tra le diverse componenti che ruotano attorno ad un impasto. Ogni singolo ingrediente è un mondo a se stante ma interagisce e si connette con la materia prima: la farina, composta da proteine, amido, lipidi, ceneri, fibre ecc.

Riguardo alle componenti fondamentali dello sfarinato, l’amido e il complesso proteico, svolgono il ruolo principale. Tuttavia, mentre l’amido, al di fuori del contesto prettamente chimico, è stato associato principalmente a quello che viene chiamato effetto “staling” (che contempla principalmente i processi di gelatinizzazione, retrogradazione e raffermamento del prodotto finito), le proteine, a livello tecnologico, ricoprono un ruolo di maggior importanza e attenzione e sono risultate determinanti per lo sviluppo  fisico del pane. (Morrison, 1988; Wall, 1979).

La qualità della panificazione è correlata alla presenza o assenza di specifiche proteine e subunità proteiche ed è determinata dall’equilibrato rapporto tra quantità, dimensione e distribuzione delle stesse.

Responsabile della trasformazione di un impasto è il glutine, le cui proteine sembrano possedere proprietà funzionali, abbastanza insolite e variabili, a seconda dello stoccaggio e conseguente maturazione del cereale.

Il glutine fu isolato per la prima volta nel 1728 da un ricercatore italiano di nome Jacopo Beccari, docente di chimica presso l’Università di Bologna. Egli lo descrisse come un composto appiccicoso, risultante dal lavaggio di un impasto preparato con farina di frumento duro e soluzione fisiologica (Bailey ).

Circa novanta anni dopo, il glutine fu suddiviso in due frazioni diluite in alcol. Le due frazioni mostrarono differente solubilità. Alle proteine ​​solubili fu assegnata la denominazione di gliadine mentre la frazione insolubile, venne originariamente denominata Zymon e ribattezzata, successivamente, con la denominazione di glutenina (Taddei  ). La sola solubilità in acqua della gliadina,  non sembrò tuttavia stabilire con certezza la particolare matrice dell’impasto e della formazione del glutine. Molto più tardi, fu stabilito che un rapporto di equilibrio tra gliadina e glutenina è fondamentale. Per approfondimenti scientifici su gliadine e glutenine, vai al link.

Durante la fase iniziale di miscelazione, a seconda della forza esercitata sull’impasto e anche tenendo conto di un assorbimento dell’acqua totale, non si ottiene alcun risultato eclatante. Solo proseguendo nella miscelazione o attraverso il tempo di stazionamento dell’impasto, la glutenina interagisce con la gliadina per poi dare origine al glutine e alla conseguente matrice viscoelastica.

Le molecole di gliadina e glutenina, differiscono tra loro nel numero di legami, a seconda delle diverse varietà di cereali e dell’interazione tra le due componenti che determinano la superficie specifica della glutenina (Sapirstein e Fu 2000). Più grande è la molecola di glutenina, minore è la superficie specifica, più lunga è la tempistica di miscelazione necessaria per raggiungere uno sviluppo completo e viceversa.

Il processo di sviluppo e la dimensione delle molecole, non è visibile se non registrando la consistenza dell’impasto mediante farinografo o mixografo. Si è compreso nel tempo che lo sviluppo ottimale, può essere ottenuto solo se la miscelazione non supera il valore critico di stabilità, espresso nel grafico risultante (Kilborn e Tipples 1972).

I migliori risultati, in cottura, si ottengono con impasti miscelati appena, non oltre il limite massimo mostrato scientificamente nella curva di stabilità e consistenza espressi dal mixografo.

A livello molecolare, durante la miscelazione, le proteine subiscono uno stress orientativo che può essere così suddiviso: disgregazione, orientamento della catena e rottura del legame molecolare. Le tre modalità di risposta ottenuta durante la miscelazione, possono aver luogo anche contemporaneamente e questo comporta una più evidente perdita della dimensione molecolare della glutenina.

Lo stress meccanico sembra provocare una barriera limitante nella trasposizione intramolecolare da parte della gliadine verso i punti di accesso che danno luogo ai legami proteici (Singh e MacRitchie, 2001a).

La magnificenza del glutine può essere osservata osservando l’interno di un impasto fermentato dove, per mezzo dell’interazione equilibrata tra queste due “componenti” proteiche, i “fili” del reticolo che, durante il processo si allineano spontaneamente, possono risultare chiaramente visibili.

E’ importante sottolineare che, a prescindere dal mezzo impiegato per la miscelazione dell’impasto, il glutine viene a formarsi a prescindere.

Per semplificare il suo ruolo nell’impasto, possiamo paragonarlo ad un palloncino che, sottoposto a pressione, si estende e si gonfia. Se la pressione esercitata è troppo elevata, il palloncino, per quanto possa essere rivestito di un materiale molto estensibile, rischia di scoppiare; se non è abbastanza elastico da riuscire a trattenere la pressione esercitata dai gas, si gonfia poco o per niente.

Con un impasto accade più o meno questo e ciò vuol dire che troppo sforzo e troppa pressione, non restituiscono un risultato ottimale.

Studiare panificazione, almeno per quanto mi riguarda, significa cercare di prendere coscienza di un’attività in continua evoluzione. Poiché le metodologie di elaborazione degli impasti, negli anni, si sono evolute divenendo sempre più numerose e sofisticate, dovremmo tenere a mente che il processo di “creazione” ed elaborazione non può essere scontato. Un impasto può presentare numerose varianti e cambiamenti di tendenza.

Fino a qualche tempo fa, la convinzione che un impasto dovesse essere miscelato con una macchina, altrimenti avrebbe prodotto risultati pessimi, è stata completamente ribaltata a fronte del “no stress”. Molti panificatori stranieri, anche su Youtube o Instagram, mostrano come, oggi, impastano manualmente ottenendo splendidi risultati. Qualcuno, addirittura non impasta affatto e sforna pani stupefacenti.

Prendendo in esame alcuni manoscritti e/o dipinti d’epoca, sui quali sono stati impressi dei prodotti da forno, possiamo notare  come il contrasto tra l’antico e il moderno si incarna nella pittura così come nella stesura di un manoscritto in modo rappresentativo, non molto diverso dall’oggi.

Una volta trasformato, un alimento come il Pane diviene “oggetto” di viaggi, trasformazioni, studi e/o approfondimenti scientifici. Ogni produttore o panificatore, ha poi tradotto nonché beneficiato di tutto questo, costruendo un proprio percorso e/o metodo di produzione, basandosi su processi antichi che hanno reso “quel” prodotto, un prodotto tipico e “speciale”.

Come può una massa anelastica e umida, trasformarsi così tanto da permettere ad un prodotto da forno di assumere un aspetto ben strutturato e attraente, tanto da evocare il desiderio di essere mangiato?

Il processo di “allineamento” delle frazioni proteiche si verifica SEMPRE e anche abbastanza rapidamente.

E’ scientificamente provato e assodato che la formazione delle fibrille (minuscoli filamenti aggreganti che danno luogo al network glutinico) non richiedono energia meccanica. Il network, ampiamente organizzato, che viene a formarsi quando le proteine, o parti di esse, frazionandosi, si ripiegano e si distendono assumendo una ben determinata conformazione reticolare, rappresentano una frontiera di studio costante. Oggi si è arrivati a comprendere che probabilmente, una manipolazione, esasperata da uno stress fisico, sia manuale, sia meccanico, può variarne irrimediabilmente la composizione e l’allineamento. Le gliadine sottoposte ad eccessivo stress, rischiano di frammentarsi ulteriormente, rendendo l’elasticità dell’impasto incapace di trattenere i gas durante l’estensione. Questo causa conseguenze in cottura che si riversano sullo sviluppo poco marcato del volume del pane perché l’elasticità di un impasto, nonché la resilienza, aumentano in modo inversamente proporzionale all’aumentare della quantità di energia esercitata.

Quando impastiamo lentamente e manualmente su un ripiano di lavoro, le variazioni del composto possono essere ben osservate con il trascorrere del tempo. Da vari studi è venuto fuori che: si può impastare lentamente, velocemente e per breve tempo o addirittura non impastare affatto, ottenendo un risultato finale, del tutto similare (Kurt A. Rosentrater, AD Evers, 2018).

Fino agli anni ’60, lo sviluppo di un impasto, inteso come sviluppo del frazionamento proteico, risultava possibile anche solo lasciando l’impasto all’interno di una ciotola, di una madia in legno o di un conca utilizzata per la miscelazione. La massa riposava e, senza l’apporto di energia meccanica, risultava coesa ed elastica, pronta da formare.

Dal 1961, il processo “Chorleywood“, diffusosi nei paesi del Regno Unito in Inghilterra mediante la “Flour Milling and Bakery Research Association“, stravolse il mercato di produzione del pane basando tutto sull’elevata velocità di miscelazione. Il risultato ottenendo, fu un prodotto bianco e morbido, a basso tenore proteico e quindi, con alveoli molto minuti. Detto “metodo” acquisì sempre più notorietà poiché ridusse notevolmente le tempistiche di miscelazione, supportato però da un’eccessiva dose di lievito e additivi vari, che restituivano il risultato di un pane più soffice. Naturalmente, potete immaginare quale fu l’effetto nell’ambito del lavoro artigianale…

Le ricerche scientifiche, nel tempo hanno tentato e tentano di spiegare ogni processo altrimenti incompreso e questo, rende affascinante questo “mondo” così vasto ma così personale.

La “riscoperta” del processo di idrolisi, ad esempio, descritta tra l’altro nel libro “The taste of bread” di Raymond Calvell (che tratta gli impasti attraverso un metodo operativo denominato autolisi), rispecchia molto di quanto descritto finora sul tempo, sul riposo, nonché molto altro da lui a sua volta scoperto e sperimentato. Processo operativo di cui, oggi, noi siamo eredi.

La panificazione è frutto di un importantissimo viaggio nel tempo, nella storia dei popoli e di tutti coloro che cercano un “equilibrio” tra elementi. Grazie al crescente numero di documenti redatti e di ricercatori che, dopo anni di profonde osservazioni e ricerche, non trovano ancora sufficienti argomentazioni per poter definire “moderno” un processo antico e millenario per cui vale la pena studiare, oggi ci ha permesso comunque di comprendere cosa accade fisicamente e chimicamente all’interno dei nostri impasti.

Ogni volta che vi accingete a produrre il vostro pane, a mio modesto parere, se disponete di tempo, provate ad osservare cosa accade quando lasciate che il lavoro viene svolto dalla sola interazione tra acqua, farina e… “riposo”.

Sono certa che vi renderete conto che l’impiego di una macchina impastatrice, può divenire superfluo e magari, utile solo quando il suo impiego si rende realmente e strettamente necessario. Oltretutto, preserverete la durata del suo motore nel tempo, ottimizzando al meglio quella che è stata la spesa economica da voi sostenuta.

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